Le origini del carnevale sardo

In questo articolo spero di poter portare alla vostra attenzione il frutto di una mia ricerca sul carnevale sardo in cui la fama delle arcaiche, affascinanti ed inquietanti maschere sarde, raggiunge lidi ben più lontani di quelli nazionali. La Sardegna annualmente è invasa da turisti, amanti del suo mare cristallino ma anche degli usi e costumi, delle tradizioni e dei paesaggi. Sagre estive, Cortes Apertas, il periodo carnevalesco le celebri sfilate come la Sagra di Sant’Efisio a Cagliari o la Cavalcata a Sassari, Sa Sartiglia di Oristano o ancora il Redentore a Nuoro, sono tra le tante manifestazioni ricercate, seguite ed apprezzate dai turisti.

Questo articolo si addentrerà sia nelle mille divertenti sfaccettature e particolarità del nostro Carnevale, che nella lugubre e tenebrosa tradizione orale, e degli usi e costumi, tramandati nei vari modi, del mondo del folklore più antico e di una religione pagana antichissima.

Buona lettura !

Le origini del carnevale sardo risalgono ad almeno 3mila anni fa e hanno subito, nel corso dei secoli, infiltrazioni, rivoluzioni e sovrapposizioni culturali da parte dei tanti popoli venuti da oltremare. In particolar modo il Cristianesimo cercò di imporre la propria dottrina, inglobando la tradizione pagana, “addomesticandone” le parti più in contrasto con i sui principi e svuotando del senso originario i gesti ed i rituali già esistenti.

Per tantissimo tempo il Cristianesimo impose la propria dottrina, facilitato dalle doti dei sapienti Vescovi che ne facevano parte. Le vittime di questo cambiamento furono sopratutto le persone che vivevano nelle città costiere mentre il “pagus” (colui che abitava nelle campagne), ovvero i “pagani”, abitavano lontano dalle città e continuavano a praticare gli antichissimi culti locali e campestri dei loro avi.

A causa della mancanza di sviluppo urbano, eccetto nelle coste, la Sardegna conservò per lungo tempo i resti di queste sue antiche tradizioni. I popoli dell’interno, arroccati sulle aspre montagne granitiche e nelle impenetrabili selve, rimasero quasi del tutto pagani fino al IX secolo.

Nonostante le maschere del Carnevale sardo cambiano da paese a paese, mantengono tutta una serie di tratti comuni, rimandando quasi tutte ad un’origine unica. Un culto antico e probabilmente violento, legato alla fecondazione delle terra e al sacrificio dionisiaco.

Andando a vedere più da vicino alcune di queste maschere troviamo, tra le più famose, quelle dei “Mamuthones” e gli “Issohadores” di Mamoiada.

Mamuthones e gli Issohadores di Mamoiada 

Le prime fatte di legno nero, tinto a carbone, con inquietanti tratti umanoidi indossano pelli ovine e pesanti campanacci sulla schiena

Mamuthones

le seconde sono invece degli umani, anche loro trasfigurati e disumanizzati da criptiche maschere bianche, vestiti con giubbe rosse e pantaloni di ugual colore delle loro maschere.

Issohadores

Durante le loro esibizioni i Mamuthones tentano di scappare dagli Issohadores che, armati di lacci, provano a catturarli. La scena che si manifesta ai nostri occhi assume un tocco folcloristico, dove gli Issohadores, rimandano le loro attenzioni nel “catturare” chi partecipa alla manifestazione piuttosto che i Mamuthones. Si suppone che un tempo questo era un vero e proprio rituale che affondava le radici nel mondo agro-pastorale e dove, probabilmente, i Mamuthones catturati rappresentavano, simbolicamente, delle vittime di un sacrificio legato alla prosperità del bestiame e dei raccolti.

Da Mamoiada ci spostiamo ad Ottana in cui sono presenti altre figure molto importanti nel panorama carnevalesco sardo, ovvero il “Boe”, il “Merdùle” e la “Filonzana”.

Boe, il Merdùle e la Filonzana di Ottana

E’ facile poter intuire dal nome che il Boe è la rappresentazione del bue, con dei grandi velli di pecora o capre, una fascia di campanacci giganteschi e delle splendide maschere bovine con foglie intagliate all’altezza delle guance e con uno strano simbolo sulla fronte, a forma di stella, il cui significato rimane tutt’oggi un mistero. La maschera è completata dagli occhi a mandorla (sempre all’insù), il muso pronunciato e le alte corna, dritte o ricurve verso l’interno.

Boe

I Merdùle, che rappresenta la figura del padrone, veste con le stesse pelli del Boe ma ha pantaloni di velluto nero e un fazzoletto dello stesso colore sul capo. La maschera è umanoide, nera come la pece, deforme e ghignate mentre sulle spalle portano “Sa taschedda”, una borsa di pelle marrone conciata, dove si mettevano un tempo le provviste. Camminano faticosamente tenendosi ad un bastone detto “su mazzuccu” emettendo strani e lugubri lamenti. Con sé porta anche “s’orriu”, un cilindro di sughero ricoperto di pelle conciata che al suo interno ha una lunga cordicella che viene sfregata dalle mani appositamente unte di grasso, del Merdùle. Questo gesto produce un suono cupo e basso che serve ad intimorire i Boes, rendendoli più mansueti e docili verso i loro padroni.

Merdùle

Durante l’evento folkloristico i buoi, spronati dai padroni, scalciano, imbizzarriscono, si lasciano cadere per terra. È in questo momento che si realizza l’antico mimodramma in cui il padrone si inginocchia e calma l’animale accarezzandolo sul muso, spronandolo affinché questi si rimetta in piedi e ricominci nel suo duro lavoro per dissodare il terreno.

Se poi il Boe continua a ribellarsi interviene l’ultimo e più terribile personaggio del Carnevale ottanese, la Filonzana. Quest’ultima maschera rappresenta une vecchia, tutta vestita di nero come le vedove sarde con gonna e scialle, piccola e gobba, quasi rattrappita in se stessa. Porta un fazzoletto nero sul capo ed una maschera fatta di legno di pero selvatico, l’albero sacro di tutta una serie di divinità lunari, tinta di nero anch’essa. L’uomo, per tradizione nessuna maschera del Carnevale è interpretabile da una donna, si muove in totale silenzio, sgraziato e ciondolante, portando con sé un fuso e delle grandi forbici. Figura criptica, paurosa e oscura in quanto è colei che tesse il filo della vita.

Anticamente questa maschera aveva un valore potentissimo in quanto era la Parca della tradizione ellenica, la padrona dei destini e del Fato. Una figura che, se non rispettata e temuta a dovere, poteva portare sventura, maledizione, carestia e morte ai dissacratori del Rito.

Nell’antico antico mondo agro-pastorale sardo, legato alla stranezza delle stagioni e a forze naturali incomprensibili, la superstizione e le benevolenza delle divinità giocavano un ruolo fondamentale e la Filonzana era il loro araldo nel mondo.

La Sardegna, terra delle meraviglie che porta con se un affascinante, e altrettanto sinistra, storia in cui si praticavano i Misteri Eleusini e quelli Dionisiaci, fortemente ancorati alla natura, ai cicli lunari e alle stagioni, alla terra e all’acqua. Riti crudi e antichissimi legati a sacrifici di animali ma anche, molto probabilmente, umani, che portavano nel sangue il loro principio salvifico in quanto il sangue porta con sé la vita e, secondo le credenze, la sola cosa capace di fecondare la terra e richiedere benevolenze e favori particolari agli Dei.

Per quanto fossero crudi non c’è né da meravigliarsi né da scandalizzarsi in quanto quelli erano tempi assai difficili in cui la vita era molto precaria e la morte una continua costante: solo i nobili, le caste sacerdotali, i guerrieri e forse i primi mercanti arrivavano, circa, all’età di 40 anni mentre i contadini morivano ad un età compresa tra i 20 ed i 25 anni, se gli andava bene, e la mortalità delle donne ed infantile era altissima.

A tutto questo, c’era da aggiungere la guerra, le faide e la schiavitù e che l’agricoltura e l’allevamento non erano prolifiche.

Per quanto potesse sembrare feroce e cruda questa pagina storica della Sardegna, se avete memoria o se vi prendete il tempo per leggere alcuni miti greci o egizi vi ritroverete ad esplorare un film horror alquanto perverso per i nostri standard. Oppure, altro storico esempio, la Bibbia in cui si parla di città spazzate via, diluvi universali, omicidi e così via fino al sacrificio finale ovvero quello di Gesù Cristo.

Molti studiosi hanno certificato che questi miti avevano un significato che, a loro modo, serviva ad educare le persone sulle cose da non fare. Lo facevano in modo duro e crudo, con esempi terribili, perché il mondo nel quale si viveva all’epoca era ancora più duro e terribile dei miti stessi.

Purtroppo, anche noi, per quanto ci possiamo scandalizzare, tra guerre mondiali, armi atomiche, sfruttamento del terzo mondo, droga e quant’altro non viviamo in un epoca migliore di quella.

Tutto questo ragionamento è stato fatto per introdurre, con la mente sgombra da tutta una serie di preconcetti morali buonistici che noi innalziamo per proteggere la nostra psiche, l’ultima parte di questo articolo, relativa alle figure più controverse e inquietanti del Carnevale e a quello che io reputo fosse il suo significato più cupo e recondito, ma anche più vero e reale specie per l’epoca antica della quale parliamo.

Per introdurlo bisogna andare a vedere le maschere che hanno comunque un rimando abbastanza chiaro allo schema che abbiamo delineato per Mamoiada e Ottana.

Scoperto recentemente grazie a dei documenti del XVIII secolo, “Sos Corriolos” di Neoneli, in provincia di Oristano, indossa un copricapo di legno di sughero, sui quali vengono applicate corna di cervo o daino, è vestito con pelli di riccio e porta sulla schiena delle ossa di animale, che vengono scosse con dei movimenti ritmici simili a quelli dei Mamuthones o dei Boes. Si pensa che questa maschera rappresentava la chiusura del ciclo dei lavori agresti, ovvero la caccia, che completava la triade composta da agricoltura e allevamento.

I suoi animali erano di riferimento selvatico, in memoria di un’epoca dove una folta e numerosa selvaggina viveva nelle selve della Sardegna. Stessa origine doveva avere “Is Cerbus” di Sinnai, in provincia di Cagliari, anche questo in ricordo delle antiche battute venatorie.

A chiudere questa sezione, vorrei citare i “Thurpos” di Orotelli, totalmente vestiti con mantelli scuri e cappuccio, senza maschere ma col volto tinto di nero e che portano a tracolla piccola campanelle. Anche loro entrano nella falsariga della tradizione di Mamoiada e Ottana, in quanto rappresentano tutta una serie di pantomime del mondo pastorale e contadino, con gioghi per le bestie, piccoli aratri e lacci per catturare bestie e turisti.

Thurpos di Orotelli

Nella parte conclusiva di questo viaggio andremo a vedere le maschere “vittime” del Carnevale: il “S’Urzu” di Samugheo, “S’Orku forestu” di Sestu, “Don Conte” di Ovodda e il più celebre “Su Battileddu” di Lula.

S’Urzu è la vittima dei Mamuthones di Samugheo che vestiti con pesanti campanacci e una danza antichissima ritmica, inseguono l’Urzu, vestito di pelle di caprone nero, con un campanaccio appeso al collo ed è tenuto al laccio da S’Omadore, il suo pastore.

S’urtzu e sa Mamulada di Seui

La maschera portata dall’Urzu, spesso, è una vera e propria testa di capra imbalsamata con larghe corna e il figurante ha il volto tutto scurito da carbone e fuliggine.

S’Omadore e i Mamuthones spingono e pungono la povera vittima per tutta la processione che in un lontanissimo passato si concludeva, probabilmente, davanti ad un altare sacrificale.

Stessa triste storia per S’Orku foresu, carico anch’esso di campanacci, ha una maschera con le corna, vesti nere, anche lui legato, percosso e pungolato dai “Mustayonis” con verghe di canne e olivastro.

Quando questi cadeva, morendo nella finzione scenico-drammatica della pantomima, i Mustayonis gridano forte “S’Orku foresu pedditzoi!”. Ma, in un gesto che andava a significare la ciclicità della vita in un processo di morte e rinascita, bastava gettare vicino all’Orku un po’ di paglia e acqua per vederlo magicamente rinascere, come doveva fare la terra dopo l’inverno.

Molto simile, ma comunque tragico nella rappresentazione abbiamo il “Don Conte”.

Protagonista assoluto della rappresentazione del paese di Ovodda, non è interpretato da nessuno in quanto è un fantoccio composto da stracci neri, con una maschera di sughero o cartapesta deforme. Viene portato in processione su di un carro trainato da un asino e celebrato per le vie del paese come una sorta di “Re del Carnevale”. All’imbrunire, però, questi viene simbolicamente giustiziato, bruciato e i resti gettati da una scarpata alla periferia del paese. A questo punto gli astanti vanno a festeggiare tutti assieme con un grande banchetto comune fino a notte fonda.

Secondo la tradizione è probabile che un tempo, al posto di quel fantoccio poteva esserci un essere umano: probabilmente era un prigioniero di guerra, uno straniero, un matto, uno schiavo o un criminale, che fungeva da vero e proprio capro espiatorio per i peccati della comunità, in un antichissimo rito violento di purificazione.

Ultimo tra tutti, ma non per importanza, abbiamo il “Battileddu”. Figura tragica e maschera impressionante, è la vera e propria rappresentazione sia del concetto di capro espiatorio, sia del sacrificio orgiastico d’impronta dionisiaca. Per fare chiarezza, con dionisiaco non si vuole intendere che in Sardegna si venerava esattamente il Dioniso greco-classico. Dioniso era infatti una figura antichissima, probabilmente una divinità della natura comune a tutti i popoli indoeuropei, tanto che la sua espansione cultuale spazia dall’Iran fino alla Francia e alla Spagna. Dioniso era una divinità legata alla fertilità, alla natura, al ciclo della vita e delle stagioni. Nel suo mito, anche nel mondo greco, lui moriva in modo violento e rinasceva in continuazione, come la natura faceva d’inverno e in primavera.

Come in molti sapranno, i culti dionisiaci erano caratterizzati da esplosioni di violenza e brutalità fuori dal comune. Gli uomini e le donne che vi partecipavano entrano in uno stato di tranche mistica tanto forte da farli sembrare più simili a bestie, piuttosto che a uomini. Se ricordate il mito di Orfeo, questi viene ucciso e fatto a pezzi da un gruppo di baccanti, sacerdotesse di Dioniso. Ecco, la maschera del Battileddu ha il viso sporco di sangue, annerito dalla fuliggine e porta due grandi corna di capra. Ha il corpo ricoperto di pelli di pecora e montone, sotto le quali viene messo uno stomaco di bue riempito di sangue e porta dei campanacci. “Su Battileddu” è la vittima sacrificale del Carnevale e intorno a lui si muovono maschere dal volto nero che lo aggrediscono più volte fino a ucciderlo, con spilloni e piccoli coltelli bucano lo stomaco del malcapitato, facendo fuoriuscire il sangue dell’animale che, con un drammatico significato ancestrale, andrà a fecondare la terra. Anche qui, come col Don Conte, il Battileddu morente viene fatto sfilare su un carro tra le incitazioni della folla, ma alle fine risorgerà, come nel mito dionisiaco. D’atro canto il lingua sarda il Carnevale si dice “Karrasegare” che nel significato più antico va letteralmente a significare “tagliare” o “segare” la carne, a perenne memoria della violenza di certi lontanissimi rituali.

 

Siamo alla fine del nostro viaggio. Essere venuto a conoscenza di determinati fatti storici inerenti la Sardegna è stato decisamente sconvolgente, ma anche e soprattutto molto interessante e stimolante. Spero di non avervi sconvolto eccessivamente ma, al contrario, incuriosito ad assistere a questi eventi carnevaleschi appartenenti ad epoche lontane e a lontane credenze e rituali che riportano alla luce le nostre origini e radici, la nostra arcaica cultura un po dimenticata e non sempre apprezzata ma sicuramente di grande importanza socio culturale e storica.

Oltre il grande spettacolo che questi eventi concedono, Bosa, Mamoiada, Samugheo, Ottana e Orotelli sono dei meravigliosi paesi da visitare ricchi di storia e cultura.

 

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