La leggenda di Maria Zuffia

Il desiderio di portare all’interno del blog qualcosa di particolare che si distacchi dagli articoli che narrano di  percorsi e natura, mi ha costretto a frugare fra libri, storie e quant’altro, ed è così che mi sono imbattuto nella “Leggenda di Maria Zuffia”. Ho conosciuto e portato alla vostra attenzione i Racconti sulla “Mamma del sole”, del “Carro di Nannai”, della “Crabarissa”, delle “Janas” e non so voi,  ma io non ne avevo mai sentito parlare della leggenda di “Maria Zuffia”. Probabilmente perché i miei nonni hanno avuto per 14 anni solo nipoti maschi e soltanto successivamente e per ultima è nata una nipote. Dico questo perché le mamme o le nonne paragonavano spesso Maria Zuffia alle loro piccole figlie o nipotine che, soprattutto nella capigliatura, non mostravano una sufficiente dedizione all’ordine.

“Dove stai andando con quei capelli? Mi parese una Zuffia!”

così appunto si diceva un tempo per descrivere una fanciulla dai capelli disordinati come fosse una strega. Purtroppo con il passare degli anni questi “modi di dire” stanno svanendo e con loro queste affascinanti leggende. 

Buona lettura !


Tanto tempo fa, in un lontano paese, viveva una ragazza dalla buffa acconciatura, i suoi capelli erano canuti e tanto ricci da rendere impossibile ogni tentativo di pettinarli: il suo nome era Maria Zuffia. A causa della sua acconciatura, veniva derisa e sbeffeggiata, ed ella, con il passare degli anni maturò un carattere sempre più introverso e schivo.

La sorte fu ancora più triste e amara con lei, portandole via i suoi genitori a breve distanza l’uno dall’altro, quando Maria aveva appena compiuto i vent’anni.
Decise di rimanere da sola in casa, lavorando notte e giorno con un vecchio telaio che veniva utilizzato dalla madre quando era ancora in vita e che la donna, a sua volta, aveva ereditato dai nonni.
Nei secoli andò diffondendosi una leggenda:

si fece sempre in modo che il telaio non passasse mai da madre a figlia ma solo da nonna a nipote. La leggenda narrava come questo telaio dovesse saltare una generazione e chi avesse infranto questa prescrizione, sarebbe diventata matta.

Maria, ignara della tradizione, vi lavorava con gran fervore, in continuazione e senza sosta filava e tesseva, sempre con i suoi ciuffi ribelli a coprirle il viso. Con il passare del tempo i suoi tappeti divennero più belli e sempre più pregiati. Le richieste cominciarono a diventare tantissime fino a giungere anche dal circondario e, nonostante avesse bisogno d’aiuto, ella preferì sempre adoperarsi da sé, avvolta nel suo silenzio.
Una volta finite e pronte alla consegna, depositava le sue creazioni dentro delle grandi ceste, le quali all’esterno recavano il nome dei clienti che le avrebbero dovute ritirare.
Chi tra i “fortunati” riuscisse a vederla tra l’oscurità delle sue mura domestiche, la descriveva come una donna invecchiata anzitempo, che non aveva altra attività oltre a quella del filare e dalla folta chioma di capelli ricci e arruffati che tuttavia non riusciva mai ad acconciare.

L’unico modo che aveva per tentare almeno di domarli era un grosso pettine di ferro arrugginito, che portava sempre con sé, usato da suo padre per lisciare il pelo agli animali della sua fattoria.

Le sue abilità nel tessere erano talmente notevoli da richiamare l’attenzione dei Reali piemontesi che soggiornavano a Cagliari. Quest’ultimi avevano ordinato una grande quantità di tappeti per le loro dimore e quando i compaesani di Maria li videro giungere nel loro borgo con una bellissima carrozza, rimasero meravigliati dalla tanta importanza e dal denaro che diedero ad ella.
Motivo per cui, nonostante fosse un personaggio singolare, dotato di poca bellezza ed intelligenza, schernita e derisa, l’avere avuto in dono un’abilità innata nel tessere, capace di richiamare l’attenzione dei nobili, fecce suscitare non poche invidie.

A causa di ciò, durante una notte, dei compaesani spavaldi e ubriaconi, mentre sorseggiavano l’ennesimo bicchiere di vino, decisero di tenderle un perfido agguato e di fare un orribile burla a Maria.
Con grande ferocia entrano nella sua casa e la legarono ad una sedia. La derisero e la umiliarono, portandole via tutti i lavori che con gran cura aveva confezionato per i Reali, facendone un grande falò nel centro della piazza.
Tutti gli abitanti del paese, incuriositi dalle grandi fiamme che si alzavano in cielo, accorsero verso la casa della malcapitata e quando videro la scena cominciarono a ridere a crepapelle complimentandosi con gli artefici dell’orribile scherzo.
Ridevano gli uomini, le donne e pure i bambini.

Maria se ne stava sola a casa, ricurva su stessa sul pavimento, addolorata, ferita nella sua dignità, ma da lì a poco avrebbe scoperto un segreto che la leggenda custodiva a proposito del suo telaio e che i suoi avi conoscevano molto bene.

Quando il telaio veniva ereditato senza saltare una generazione, questo acquisiva poteri magici; filava e tesseva all’infinito dando la possibilità a chi lo utilizzasse di diventare ricco.

Ahimé, così come Maria non sapeva della magia del telaio non ne conosceva le conseguenze: chiunque si fosse avvantaggiato di questa fortuna diveniva pazzo.

Fu così che con grande stupore vide il suo telaio lavorare miracolosamente tutta la notte, senza mai fermarsi.
Tessé degli splendidi tappeti con dei ricami in oro, ancora più belli di quanto ella stessa li avesse mai pensati.
Così, tra l’incredulità generale, riuscì a effettuare la sua consegna; i nobili furono entusiasti delle sue creazioni.
Gli abitanti del paesino si chiesero come diamine avesse fatto in una sola notte a produrre tutti quei tappeti, ancor più meravigliosi di quelli che qualche ora prima erano stati dati alle fiamme.

Finalmente, seduta sulla sedia a dondolo, Maria se ne stava in casa soddisfatta godendosi alcuni attimi di felicità ritrovata dopo tante sofferenze ma, improvvisamente, colta da un fortissimo mal di testa, si gettò a terra e iniziò a dimenarsi e contorcersi su se stessa.
Il dolore si fece sempre più forte e fu così che si avverò quanto predetto: divenne pazza.

Il suo corpo mutò insieme alla sua mente; il mento divenne sempre più aguzzo, la gobba ancora più accentuata, dalle dita sbucarono fuori dei grossi artigli e sulla testa un velo bianco ricamato.

Di lì a poco in paese si sarebbero svolti i festeggiamenti per la festa patronale. Era ricorrenza, per tutte le donne del paese, prima della festa, recarsi presso una fontana poco distante dalla casa di Maria. Era buon auspicio, infatti, berne l’acqua per rinnovare la tradizione secondo la quale questa ritualità portasse benefici alla salute, alla fertilità e che allontanasse la malasorte.

Fu così che Zuffia cominciò ad architettare una terribile piano diabolico, meditando una vendetta orribile. Si recò alla fontana qualche ora prima l’arrivo delle donne e gettò nell’acqua un miscuglio di erbe polverizzate mischiate a cenere, un impasto che aveva l’effetto di un potente sonnifero, capace di far dormire per giorni chiunque l’avesse bevuto.
Con gli occhi scavati e pieni di odio, Zuffia guardava le donne di tutto il paese che, in fila indiana, si recavano alla fonte per rinnovare il voto, ognuna con la
sua ciotola che, spesso, era marcata con il nome di famiglia o una preghiera al Santo a cui era devota.
Quando anche l’ultima di queste ebbe bevuto, caddero tutte in un profondo torpore. Fu in quel momento che Maria portò fuori il suo telaio, prese per i ciuffi ogni testa delle malcapitate e iniziò a tessere e filare usando i loro capelli, stracciandoli dalla cute.
Riuscì a realizzare un grande tappeto che distese lungo la via principale del paese.

Quando gli uomini tornarono dai campi furono incuriositi dall’enorme e strano manufatto, pensarono subito fosse un’orribile creazione di Zuffia e, almeno su questo, non si sbagliavano, ma mai e poi mai avrebbero potuto immaginare che la materia prima di quell’opera le fosse stata fornita dalle loro donne.

Nel paese regnava uno strano silenzio. Un profondo senso di angoscia cominciò a nascere dentro di loro,  sentivano che qualcosa non andava. Si misero a correre, ciascuno presso la propria abitazione. Ma erano vuote. Non trovando le loro mogli, presero fiaccole e fucili e a colpo sicuro si diressero verso la casa di Zuffia. Niente. Della donna nessuna traccia e nemmeno del suo famoso telaio.

L’angoscia di trasformò in paura. Organizzarono una squadra di ricerca, pensarono al luogo in cui le donne potessero trovarsi e venne loro in mente la fontana, dove durante il giorno si erano recate.

Giunti a destinazione rimasero ammutoliti dinanzi alla raccapricciante scena che i loro occhi videro.
Le mogli ammassate come fossero bestie da macello, i crani sanguinanti con i solchi dello scalpo e, accanto alla fontana, Maria, ormai completamente impazzita, che rideva con gli artigli tra i denti.
Subito il gruppo si divise: alcuni andarono a prendere i carri per portare in salvo le donne, mentre i restanti accerchiarono Zuffia, la presero con forza e la sottoposero a esecuzione capitale.

In paese si gridò alla vittoria, giustizia fu fatta.

Gli uomini cercano spesso di attribuire nome e cognome al male, qualcuno cioè a cui attribuire tutte le responsabilità, far patire le conseguenze.
La ricerca del capro espiatorio è l’atto irrazionale per cui si ritiene una persona responsabile di essere fonte del male.

Questo fu il destino beffardo di cui fu vittima.
Si sa, la storia viene scritta dai vincitori e Maria Zuffia, sconfitta, divenne prima vittima sacrificale della malvagità collettiva, poi diabolica creatura di una leggenda popolare.

Una leggenda dai toni tristi e macabri con una feroce morale di fondo. Nessuno vuole affrontare le proprie responsabilità quando gli viene offerta l’imperdibile occasione di riversarla sugli altri. La follia di Maria Zuffia non è altro che la resa di un animo ferito che mette gli artigli e diviene il mostro da temere e incolpare.

 

FONTI:

La leggenda è tratta da “Contus Antigus – Leggende e Tradizioni di Sardegna“, di Pasquale Demurtas

 

 

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